SCRITTI
DI EDOARDO BARALDI 1 -
“IL
DUBBIO ASSOLUTO VERSO TUTTI I PREGIUDIZI .
LA
DIVERGENZA ASSOLUTA DA TUTTE LE TEORIE
CONOSCIUTE”
Il dubbio
assoluto
“Occorre
applicare il Dubbio alla Civiltà, dubitare della
sua necessità, della sua permanenza.Questi sono
problemi che i Filosofi non osano porsi, perché
sospettando della Civiltà, farebbero cadere il
sospetto di nullità anche sulle loro teorie.
Quanto
a me,che non avevo alcun partito da sostenere, ho
potuto adottare il Dubbio assoluto e applicarlo,
per cominciare, alla civiltà e ai suoi pregiudizi
più inveterati.”
La
divergenza assoluta
“Avevo
intuito che il modo più sicuro di arrivare a
qualche scoperta utile era quello di allontanarsi
in ogni senso dalle vie battute delle scienze
incerte, che nonostante gli immensi progressi
dell’industria, non erano neppure riuscite a
prevenire l’indigenza.”
Charles Fourier
Fourier
è noto
per la proposta di architettura societaria
con il Falansterio e le strade galleria.
Ma
le citazioni in epigrafe si riferiscono non
all’utopia propositiva,bensì a quella
emancipatoria.
Furier,
dopo la ventata rivoluzionaria del 1789, che
coincise con il fallimento dei programmi della
“borghesia progressista,”
rileva con lucidità le
contraddizioni, le illusioni, ma soprattutto il
carattere repressivo della società.
Il
“disagio della società” analizzato da Freud
negli anni Venti (“L’uomo civile ha barattato
una parte della sua possibilità di felicità per
un po’ di sicurezza”), viene anticipato
dall’utopista francese, definito da Stendhal
“il sognatore sublime”. Mentre ieri si
spegnevano i lumi del progresso, oggi sembra
brillare la luce del liberismo e del mercato
globale che condiziona governi e organismi
internazionali, aumentando disuguaglianze e
ingiustizie.
Per
alimentare la luce del mercato e del danaro, unica
unità di misura
della “scienza” economica, si rischia
di spegnere la vita sulla Terra.
Non
servono utopie propositive e consolatorie, non
servono ricette per le
cucine del futuro.
Sono
trascorsi cinquanta anni dalla fine della seconda
guerra mondiale e sono lontani gli anni delle
certezze, gli anni
delle ideologie, gli anni
delle speranze in cui fiorivano progetti
totalizzanti, le generose intuizioni volte alla
trasformazione
del modo di vivere.
Difficilmente
potranno ritornare gli anni intensi, gli
anni della speranza dei “disurbanisti”
sovietici.
Spenti gli entusiasmi che accompagnavano gli “ismi” e le scuole
d’architettura, concluso il periodo
dell’espansione edilizia, l’architetto si
interroga.
Le
certezze di ieri vengono sostituite dal dubbio
assoluto e dalla divergenza assoluta.
Esaurita
la spinta innovativa dei razionalisti con
l’emblematico
suggerimento della coppia
Diotallevi-Marescotti : “Ogni cosa al suo posto,
un posto per ogni cosa ” , dissolta la vampata
postmoderna con l’immagine di “piazza
Italia” a New Orleans che ne costituisce
l’indelebile epitaffio, entriamo nel
nuovo secolo senza padri e senza fedi. Con il
successo delle “grandi” opere del
“decostruttivismo”
la conferma della travolgente
mondializzazione dell’economia è
compiuta.
Senza
speranza per i non omologabili
?
Ripercorriamo
a ritroso alcune tappe del dibattito
architettonico alla ricerca del filo, alla ricerca
della ragione e del senso.
La
preferenza di Zevi per l’architettura organica
di Wright è nota e ha resistito nel tempo. In
quegli anni molti apprendisti architetti erano
accecati dal brutalismo lecorbuseriano e
disdegnavano il mimetismo dell’architettura
organica.
Si
infittivano i pellegrinaggi in Francia, da
Marsiglia a Poissy.
Senza
dimenticare la collina incantata : il Weissenhof
di Stoccarda ; una specie di show room
dell’architettura razionalista
all’aperto.Coperture piane, volumi puri, poca
ironia, bandito con il colore, il piacere della
decorazione.
Così
tra funzioni e finzioni, si insinuava il dubbio
salutare sulla contraddizione “Ronchamp” e
l’espressionismo seducente della torre Einstein
di Mendelsohn.
Quando
i vincoli legati al come fare diventavano quasi
insopportabili, le incertezze e i dubbi
rischiavano di avere il sopravvento inceppando
fantasia e creatività,una ventina d’anni fa mi
sono imbattuto nella prima mostra internazionale
di architettura della Biennale veneziana. Ho
intravisto la possibilità di uscire dalla
pericolosa situazione di stallo, svincolandomi dai
rigidi dogmi-verità dell’international style,
eludendo le ben radicate regole del movimento
moderno.
Così
mi sono lasciato prendere dal piacere della
trasgressione.La colorata eresia con l’inedita
libertà compositiva, dai rimandi sia
semplicissimi e infantili, che più complessi e
– perché no ? –
colti :
Breve
stagione.
Puntualmente,
alle felici intuizioni dei maestri
“apripista”, alle realizzazioni innovative, e
seguita la stagione ineludibile degli imitatori
improvvisati , si è irrobustita la schiera degli
opportunisti interessati.
Così
il messaggio dirompente viene stemperato dagli
allievi e vanificato dai seguaci.
Gli
imitatori completano l’opera e trasformano
l’innovazione in conservazione.
Ciarlatani
prestigiatori di forme
e contenuti dilagano, in centro come
in periferia.
Ragionieri
dell’indice, del conto in banca, ossessionati
dai vincoli quantitativi cui sacrificare senza
incertezze qualità e dignità.
Così
si è fatta strada in me la voglia di accantonare
il desiderio ossessivo di fuga in avanti per
tornare indietro nel tempo e in giro per
l’Europa alla ricerca delle origini
dell’architettura moderna.
Art
nouveau, Jugendistil, Modernismo, Art and Craft :
le varianti nazionali dello stesso movimento
d’inizio novecento.Da Barcellona
a Glasgow, passando per Bruxelles.
Paradosso
: nasce l’architettura moderna
(con le prime strutture metalliche) con il
gusto dell’eccesso floreale
e contemporaneamente si gettano le basi per
un algido dogmatismo caro a Loos.
Si
demolisce la Maison du Peuple di Victor Horta e
nello stesso tempo
si costruisce il museo in cui raccogliere i
disegni, i frammenti dell’edificio che fu.
Al
suo posto una scintillante quanto anonima banca.
Si
cancellano le diverse culture sacrificandone
l’identità sull’altare
dell’omologazione allo style internazionale e
della zonizzazione per ghetti.
Jane
Jacobs, scriveva già quaranta anni fa, che
“Nell’architettura, come nella
letteratura e nel teatro, è la ricchezza di
varietà umana
che dà vitalità e colore all’ambiente
in cui l’uomo vive.
Se
si pensa al pericolo della monotonia…il difetto
più grave delle nostre norme di zoning, sta nel
fatto che esse permettono che un’intera zona
venga adibita ad un singolo uso”.
Negli
anni sessanta si faceva strada la convinzione di
costruire quartieri dormitorio alle porte delle
città, si consegnava il centro (il salotto buono)
alle banche e agli uffici, il centro storico
diventava un comodo contenitore
degli emarginati di turno.
Ieri
chi emigrava dal sud d’Italia, oggi dal sud del
mondo, si insediava
negli edifici lasciati degradare per essere
poi più facilmente demoliti.
La
diffusione della motorizzazione privata e della TV
hanno completato l’opera.
Il
panorama è desolante.Alla mondializzazione
dell’economia corrispondono una massificazione
planetaria e una volgarizzazione generalizzata
della produzione architettonica.
In
Italia registriamo da anni crescita zero, la
popolazione cala, ma c’è sempre chi riesce a
prospettare la necessità di
nuovo cemento e di altro asfalto,
manovrando l’esercito di riserva degli addetti
al settore. Nel bel paese ( che detiene il
record mondiale
di consumo di cemento pro capite
all’anno), negli ultimi
quaranta anni si è costruito con una media di 1,7 milioni di vani
all’anno.
Per
l’affrancamento della disuguaglianza dobbiamo
cercare altre vie, dobbiamo abbandonare
definitivamente il mito dello sviluppo
quantitativo illimitato.
Potremo
così recuperare la dimensione qualitativa ?
Dalla
coscienza di classe alla coscienza di specie : cioè
alla consapevolezza di estinzione che minaccia la
specie umana.
Dall’economia
all’ecologia.
Dall’economia
del più, all’ecologia della società sobria e
solidale.
La
tecnologia non può risolvere tutto : nulla si
crea, nulla si distrugge ( e penso alla
“termodistruzione” dei rifiuti !).
Dobbiamo
appropriarci di concetti come l’insostenibilità
degli sprechi energetici, la limitatezza delle
risorse e la finita capacità di sopportazione
dell’ambiente ; la strutturale iniquità
del modello liberista con i “rimedi”
che i paesi industrializzati (USA in testa)
propongono per ridurre
l’eccesso di anidride carbonica .
Chi
ha detto che a più case corrisponde un maggior
benessere ? A più asfalto maggior libertà ?
Perché gli indicatori della ricchezza di una
nazione ( PIL) non considerano anche parametri
quali il benessere e la serenità di una nazione,
perché non vengono conteggiati anche i costi
sociali ed ambientali dello sviluppo dissipativi?
Perché il rapporto con la natura deve essere
sempre di dominio
?
Il
meglio non sempre
coincide
con il più.
“Più
è meno” sosteneva Mies van der Rohe.
Perché non impegnare risorse ed energie per il riuso ed il restauro
del nostro territorio ?
Nuovi
posti di lavoro sono possibili con un uso
razionale delle risorse : dall’impiego di
energie rinnovabili, all’uso più equilibrato
del territorio, alla salvaguardia delle foreste e
delle coste, abbandonando il modello fondato sullo
spreco e sulla distruzione di risorse irripetibili
, fondato sull’ingiustizia sociale
e sulla disoccupazione programmata.
Alcuni
anni or sono (erano gli anni delle
semplificazioni, con divisioni nette e il mondo
era diviso in due), ero
dell’idea che un architetto di
intelligenza media e privo di interessi
particolari da difendere, inevitabilmente si
sarebbe trovato
sulla “riva sinistra”.
Erano
gli anni in cui il ministro Sullo aveva osato
proporre una legge di riforma urbanistica che
regolasse l’uso
del suolo, separando il diritto di edificare da
quello di costruire, quando in Francia e
Inghilterra il mercato immobiliare pubblico si
attestava sul quaranta per cento.
Finito
in acqua Sullo,
successivamente ho avuto modo di conoscere da
vicino molti architetti progressisti e di sinistra
e ho imparato che la realtà è molto più
complessa. Il mondo non è in bianco e nero, ci
sono i colori e le sfumature. C’è la partita
doppia, l’altra faccia della luna.
Così
oggi non mi interessa se un architetto si dichiara
di sinistra , quasi impossibile poi per un
professionista attivo ritenersi ambientalista.
Come sfuggire alla sindrome da “tour Eiffel” ?
Molto
probabilmente nel 1889 mi sarei unito a chi
protestava per il prepotente inserimento di
un’opera non tradizionale nel panorama parigino.
Intanto, la torre di quasi cento milioni di chili
metallici è diventata il simbolo di Parigi e oggi
i pronipoti degli ambientalisti di fine secolo
insorgerebbero, come hanno fatto –
inutilmente – alcuni anni fa,
contro la demolizione dei mercati generali
(les Halles).
Qual
è la morale ?
Forse
si potrebbe provare, con
Fernando Pessoa, a distinguere tra adattati
e disadattati : “Una sola cosa mi meraviglia di
più della stupidità con la quale la maggior
parte degli uomini vive la sua vita :
l’intelligenza che c’è in questa stupidità”.
Prosegue il contabile di Rua dos Douradores :
“Alcuni hanno un grande sogno nella vita
e mancano a quel sogno.
Altri
non hanno nella vita nessun sogno e mancano anche
a quel sogno”.
Gli
architetti (alcuni,
non tutti) sognano di tradurre in realtà fisica
e tridimensionale le proprie intuizioni, i
propri sogni.
A
questo punto devo riferirmi alla celebre novella
delle “Mille e una notte” in cui Aladino,
impossessatosi della lampada, riuscì facilmente
in ciò che agli altri costava fatica.
L’attenzione
però vorrei concentrarla sul Genio della lampada.
Il
Genio-architetto, per una boccata d’aria, è
costretto ad assecondare sempre e comunque il
possessore della lampada, sia esso Aladino o il
perfido mago.
Se
nella favola tutto finisce bene, con tanto di
matrimonio principesco, nella realtà la sorte del
genio della matita è ben diversa, anche
se riesce, ogni tanto,
ad ossigenarsi.
Ancora
Pessoa :” Tutto
quello che
cerchiamo lo cerchiamo per ambizione.
Ma quell’ambizione non la si soddisfa mai, e allora siamo dei
poveri ; oppure crediamo di soddisfarla, e allora
siamo dei pazzi ricchi”.
1
agosto 2000 |